Se gli dei del basket, come ritengono alcuni grandi cronisti di questo sport, esistessero veramente, non ho dubbi su chi sarebbe il loro figlio prediletto.
Non il classico bravo ragazzo, quello che con umiltà lavora sui doni che ha ricevuto e ne tira fuori molto di più. No, non quel tipo di ragazzo. Perché un genitore ama perdutamente il proprio figlio, ma lo ama ancora di più se quello rischia di perdersi. Il bad boy è per definizione in primis il cruccio di chi lo ha cresciuto, perché non si è mai realmente convinti di aver svolto al meglio il proprio lavoro. Ci si chiede "Dove ho sbagliato?" e ci si tormenta, nel tentativo quasi inutile di darsi una risposta. E io credo che la principale forma di amore nei confronti di un figlio, sia quello di preoccuparsi per il suo futuro, interessarsi a lui, cercare di migliorarlo e migliorarsi, anche se molto spesso, basta leggere il giornale, o ascoltare con attenzione le storie della strada, si arriva all'esagerazione, al punto di non ritorno.
Gli dei del basket analizzano uno per uno tutti i bambini del mondo, e decidono a chi di loro mettere nelle mani il sacro fuoco della pallacanestro. Alcuni di loro non vedranno mai una palla a spicchi in vita loro, e non potranno mai sapere il dono che hanno ricevuto. Altri scoprono questo dono, che sia sulle strade insanguinate del New Jersey o nelle comode palestre della Baviera. Qui subentra un'altra cosa, che non tutti hanno. Parlo dell'etica del lavoro, quella che ha portato un modesto americano cresciuto a Pistoia ad essere il più grande (o qualcosa che ci va molto vicino) di ogni tempo e ad essere l'atleta più odiato, ma anche amato, d'America.
In America hanno, ma questo è risaputo, una capacità straordinaria nel creare le storie. Storie di rivincita personale, storie di fallimenti, di rovinose cadute e di luminose risalite. Ma anche storie incomplete, storie di gente troppo forte per non arrivare, ma con troppo ego, o con troppa locura per toccare il punto più alto.
Se esiste un contenitore molto ampio di queste storie, questo è sicuramente la NBA, dove sembra che ogni giocatore abbia il suo piccolo angolo di leggenda, il suo spazio incastonato all'interno delle tre lettere del campionato di basket più bello del mondo. Leggende, fenomeni, buoni giocatori, bidoni assurdi. Chiunque sembra avere qualcosa da raccontare, e per un ragazzo come me, che le storie ama raccontarle (perché sarà pure vero che la storia è meglio farla che scriverla, ma vuoi mettere poi averne i diritti d'autore?) è impossibile non rimanere affascinato da questo mondo gigantesco, sì pieno di corruzione, business e nepotismo, ma anche emozionante, luminoso e meravigliosamente pazzo.
Chris Birdman Andersen, Nate Robinson, Jack Molinas, Kyrie Irving, Hakeem The Dream Olajuwon, Paul Pierce. Tutti questi personaggi, per quanto differenti, e baciati in maniera più o meno grande dal talento, hanno una cosa in comune. Hanno tutti quanti delle storie molto particolari, avventurose, assurde, ma che trasudano tutte quante l'ideale sogno americano.
Birdman, un uomo che ha fatto della sua pelle una galleria di arte moderna, con cui pochi hanno avuto l'onore di scambiare due parole. Molinas, il fenomeno che vendette il suo talento cestistico e la sua intelligenza alla mafia newyorkese. O The Captain and the Truth, che, sopravvissuto ad una terribile aggressione nel settembre 2000, tornò sul campo a dominare pochi mesi dopo, diventando una leggenda dei Boston Celtics, con cui vinse il titolo 2009, in una squadra che vedeva convivere (non sempre in maniera pacifica) i Big Three (Lui, Garnett e Allen) e il talento ad intermittenza di Rajon Rondo.
Non il classico bravo ragazzo, quello che con umiltà lavora sui doni che ha ricevuto e ne tira fuori molto di più. No, non quel tipo di ragazzo. Perché un genitore ama perdutamente il proprio figlio, ma lo ama ancora di più se quello rischia di perdersi. Il bad boy è per definizione in primis il cruccio di chi lo ha cresciuto, perché non si è mai realmente convinti di aver svolto al meglio il proprio lavoro. Ci si chiede "Dove ho sbagliato?" e ci si tormenta, nel tentativo quasi inutile di darsi una risposta. E io credo che la principale forma di amore nei confronti di un figlio, sia quello di preoccuparsi per il suo futuro, interessarsi a lui, cercare di migliorarlo e migliorarsi, anche se molto spesso, basta leggere il giornale, o ascoltare con attenzione le storie della strada, si arriva all'esagerazione, al punto di non ritorno.
Gli dei del basket analizzano uno per uno tutti i bambini del mondo, e decidono a chi di loro mettere nelle mani il sacro fuoco della pallacanestro. Alcuni di loro non vedranno mai una palla a spicchi in vita loro, e non potranno mai sapere il dono che hanno ricevuto. Altri scoprono questo dono, che sia sulle strade insanguinate del New Jersey o nelle comode palestre della Baviera. Qui subentra un'altra cosa, che non tutti hanno. Parlo dell'etica del lavoro, quella che ha portato un modesto americano cresciuto a Pistoia ad essere il più grande (o qualcosa che ci va molto vicino) di ogni tempo e ad essere l'atleta più odiato, ma anche amato, d'America.
In America hanno, ma questo è risaputo, una capacità straordinaria nel creare le storie. Storie di rivincita personale, storie di fallimenti, di rovinose cadute e di luminose risalite. Ma anche storie incomplete, storie di gente troppo forte per non arrivare, ma con troppo ego, o con troppa locura per toccare il punto più alto.
Se esiste un contenitore molto ampio di queste storie, questo è sicuramente la NBA, dove sembra che ogni giocatore abbia il suo piccolo angolo di leggenda, il suo spazio incastonato all'interno delle tre lettere del campionato di basket più bello del mondo. Leggende, fenomeni, buoni giocatori, bidoni assurdi. Chiunque sembra avere qualcosa da raccontare, e per un ragazzo come me, che le storie ama raccontarle (perché sarà pure vero che la storia è meglio farla che scriverla, ma vuoi mettere poi averne i diritti d'autore?) è impossibile non rimanere affascinato da questo mondo gigantesco, sì pieno di corruzione, business e nepotismo, ma anche emozionante, luminoso e meravigliosamente pazzo.
Chris Birdman Andersen, Nate Robinson, Jack Molinas, Kyrie Irving, Hakeem The Dream Olajuwon, Paul Pierce. Tutti questi personaggi, per quanto differenti, e baciati in maniera più o meno grande dal talento, hanno una cosa in comune. Hanno tutti quanti delle storie molto particolari, avventurose, assurde, ma che trasudano tutte quante l'ideale sogno americano.
Birdman, un uomo che ha fatto della sua pelle una galleria di arte moderna, con cui pochi hanno avuto l'onore di scambiare due parole. Molinas, il fenomeno che vendette il suo talento cestistico e la sua intelligenza alla mafia newyorkese. O The Captain and the Truth, che, sopravvissuto ad una terribile aggressione nel settembre 2000, tornò sul campo a dominare pochi mesi dopo, diventando una leggenda dei Boston Celtics, con cui vinse il titolo 2009, in una squadra che vedeva convivere (non sempre in maniera pacifica) i Big Three (Lui, Garnett e Allen) e il talento ad intermittenza di Rajon Rondo.
The truth is that you can't handle the Truth
Tutte queste storie hanno contribuito anche al successo di un grandissimo professionista del cantastoriaggio come Federico Buffa, che ha impreziosito le telecronache alle quali partecipava insieme a The Voice Flavio Tranquillo con una serie infinita di racconti, brevi o lunghi, che hanno messo in luce le sue fenomenali doti di narratore, che lo hanno poi portato anche a scrivere libri, ma anche a programmi televisivi di successo, e infine al teatro.
Ma tra tutte questi racconti, dai contorni quasi leggendari, ce n'è una che mi ha particolarmente colpito. O meglio, c'è un cestista, il figlio prediletto degli dei del basket, che ha fatto innamorare molti giovani in tutta America. Un atleta, anzi, meglio dire un artista, che ha dipinto le sue opere migliori nel corso delle sue prime tre stagioni, ma che ha raggiunto il punto più alto della sua carriera solo successivamente, dopo essersi rialzato e essersi reso conto che il suo basket anarchico, per quanto spettacolare non aveva un grosso futuro.
Se esistessero gli dei del basket, il loro figlio prediletto sarebbe sicuramente Jason Williams.
Capitolo 1-Home Sweet Home
Belle è una città, anzi, per essere precisi, un paese, o meglio un agglomerato di case situato sulle rive del fiume Kanawha, nello stato della West Virginia. Non è il posto ideale in cui vorreste far crescere vostro figlio, ma non per i classici motivi di violenza, o almeno non solo per quelli. Perché negli anni '70 la WV è una zona ancora molto razzista, e le tensioni sono ampie. Ma come detto a Belle il problema principale è un altro, ovvero l'inquinamento, perché sulla stessa riva su cui affaccia il paese, affacciano anche gli stabilimenti della DuPont, che negli anni ha sviluppato polimeri quali il nylon e il kevlar, ma anche il freon per l'industria refrigerante, non proprio il prodotto più salutare da respirare. Basti pensare che tra i novanta e i duemila queste sostanze aumentarono del 385% la loro presenza in aria e in acqua.
L'inquinamento però non causa grosse proteste all'interno della popolazione del paese, per il motivo molto semplice che senza DuPont, Belle non esisterebbe proprio. L'azienda è talmente ben inserita nel tessuto societario che la high school del luogo era nota, fino al 1999, con il nome di DuPont High School.
Quando la scuola decide di nominare un nuovo vigilante, i suoi dirigenti non si aspettano certo che quella scelta cambierà il destino della loro scuola e donerà al paese la sua unica e più grande celebrità. Il lavoro finisce, come le chiavi della palestra della scuola, nelle mani di Terry Williams.
Terry è fortunato, perché tra tutti i luoghi dello stato in cui poteva svolgere il proprio lavoro, è riuscito ad essere assunto in una delle poche zone che non soffrono grosse tensioni razziali. In questa piccola cittadina si stabilisce con l'intera famiglia, e a Belle nascono i due figli: Sean, il figlio maggiore, è un ragazzo tranquillo, un'anima candida, che non tradisce affatto l'aspetto da bravo ragazzo di famiglia benestante che è inserito nel suo patrimonio genetico. Il secondogenito invece, nasce il 18 novembre del 1975, e prende come nome Jason Chandler Williams. Jason è tutto tranne quello che si può definire come un ragazzino tranquillo. Fin dai più teneri anni di vita incomincia a dimostrare una certa iperattività, che poi è anche una cosa tipica per un ragazzo così piccolo.
Non ho mai avuto a che fare, o almeno non in maniera continua, con bambini realmente iperattivi. In primis perché sono figlio unico, e sono ancora un ragazzo, e quindi non ho avuto a che fare con figli/fratelli, e in seconda istanza perché io stesso, quando dovevo ancora superare la doppia cifra in fatto di anni, ero abbastanza pigro, oppure ero interessato solamente a ciò che mi piaceva veramente e mostravo ben poca attrazione per nuove esperienze. Ma anche a me è capitato di incontrare, per strada o a casa di altri qualcuno che fosse veramente iperattivo. Guardando con occhi esterni si ha effettivamente una sensazione di ingestibilità totale, e se esiste un aggettivo per descrivere Jason Williams, quantomeno nei suoi primi ventisei anni su questo pianeta, quello è sicuramente "ingestibile".
In generale, il metodo che molti genitori utilizzano per gestire, nei limiti del possibile, il problematico pargolo iperattivo è quello di dargli un qualcosa su cui sfogarsi. In Italia, da calciofili quali siamo, ai bambini viene donato un pallone ricoperto con esagoni bianchi e pentagoni neri. In America le opzioni sono già di più, e nello specifico i coniugi Williams regalano al piccolo Jason un pallone molto simile ad un'arancia.
Il dono porta effettivamente dei risultati, nel senso che non riesce a fermarne il moto frenetico, ma fa capire che quel ragazzo, col pallone, ci sa fare. La leggenda, peraltro confermata dallo stesso Williams, vorrebbe che Jason possedesse un ball-handling invidiabile già alla tenera età di quattro anni, e intorno ai sette anni, appena maturata la convinzione di voler assolutamente diventare un professionista della NBA, avesse iniziato a occupare indebitamente (e con la complicità del padre, a cui come detto erano state affidate le chiavi della scuola) la palestra della DuPont High School, nella quale passa interi pomeriggi e serate, e dalla quale il padre lo tira fuori ad un orario molto più vicino alla mezzanotte che a mezzogiorno, anzi, sono abbastanza convinto che Jason a volte arrivasse anche a superare la mezzanotte, nella sua adorata palestra.
Quella palestra, e Jason lo sa bene, tornerà per forza di cose nella sua scalata alla National Basketball Association. Lo fa, più precisamente, nel 1991, quando Jason si iscrive alla high school del luogo, la stessa, appunto, di cui suo padre è custode e nella cui palestra è cresciuto tirando la palla a canestro. In realtà Jason Williams non pratica solamente il basket, ma si distingue anche nel football. In entrambe le squadre liceali Jason è al centro dell'azione, nei due ruoli cardini, quelli intorno a cui girano tutti gli altri elementi nella squadra, ovvero playmaker sul parquet e quarterback sul manto erboso, e i risultati si notano, perché il ragazzo è dotato di una visione di gioco spaventosa e può vedere cose che tutti gli altri stentano ad immaginare, e il suo bersaglio preferito (in entrambi gli sport) è quello che, fuori dal campo, è il suo migliore amico: Randall "Randy" Moss.
Randy è originario di Rand, a pochi chilometri di distanza da Belle, e situata sul corso dello stesso fiume, ma estremamente più problematica a livello di disordini di tipo razziale. Randy è di due anni più giovani di Jason, ma è l'unico che sembra vivere nello stesso universo con questo ragazzino con la faccia da bimbo e i capelli biondi. I due in realtà seguiranno un percorso opposto, ma simile in fatto di date: entrambi andranno all'università nel 1995 ed entrambi verranno scelti al Draft nel 1998. Sì, ma in due draft diversi. Perché se Jason Williams verrà chiamato sul palco da David Stern in quel di Vancouver, Randy Moss stringerà la mano a Paul Tagliabue al Madison Square Garden (che poi sarebbe la casa del basket, ma cambia poco). Randy quindi firma nella NFL, con i Minnesota Vikings, nel ruolo di wide receiver, lo stesso che praticava al liceo quando riceveva i lanci precisi, ma al quanto anticonvenzionali di Jason Williams, e concludeva con un touchdown.
D'altronde se hai ricevuto i passaggi da Jason Williams, sarai facilmente capace di comprendere cosa vuole fare il tuo quarterback
A proposito di touchdown, Randy è uno che si lascia ricordare dai tifosi NFL per quanto fatto in carriera. Due numeri: è il rookie con il maggior numero di touchdown su ricezione nella singola stagione (con un numero di 17), il migliore nella stessa statistica (23, nella stagione 2007), e il secondo nella classifica all-time con 156, e infine il terzo giocatore di sempre per yard ricevute in carriera (con 15292). Qualcosa al football lo ha lasciato, ma molto a lui, evidentemente, lo hanno lasciato tutte le ricezioni fatte su lanci del suo amico e compagno Jason.
Abbiamo visto che impatto ha avuto Jason Williams, in maniera ovviamente inconsapevole, nella creazione di una vera e propria macchina da touchdown ai massimi livelli, ma al liceo non solamente Randy plasma quello che è il suo potenziale, ma lo stesso Jason fa capire di che tipo di giocatore staremmo parlando.
Giocata classica: Palla a Williams, passaggio dietro la schiena verso il già citato Randy Moss, canestro, Jason recupera palla, altro dietro la schiena, altro canestro. Se c'è un giocatore spettacolare quello è proprio il piccolo folletto biondo di DuPont High School, che però non si limita ad essere bello da vedere, perché è anche di un'efficacia tremenda (ok, non sarà sempre così la cosa, anzi, difficilmente riuscirà ad essere entrambe le cose insieme): Campione statale nel 1994 con i suoi Panthers, miglior giocatore liceale dello stato, secondo USA Today, negli anni 1994 e seguente, nonché primo (e unico) giocatore nella storia della sua high school con più di mille punti e cinquecento assist a referto. Molto semplicemente, troppo assurdamente intelligente per il resto dei suoi coetanei, troppo visionario.
Dopo la high school, il sistema scolastico (e sportivo) americano prevede il college. Teoricamente, il percorso base di un giocatore all'università, dura quattro anni, tutti giocati con la stessa maglia. Ma Jason Williams è molto lontano dal concetto di persona normale, e la sua avventura collegiale lo vede giocare per tre college diversi (anche se poi sul campo ha indossato la canottiera solamente di due università) e di sole due stagioni intere giocate in NCAA. Inizialmente Jason firma per Providence, salvo poi abbandonarla quasi subito, e spostarsi a Marshall, dove, secondo il regolamento NCAA, è costretto a rimanere una stagione ai box proprio per il suo cambio di ateneo. Ma visto che nel 1996 il suo coach Billy Donovan (proprio quello che adesso gestisce sul campo KD e Russel Westbrook) preferisce trasferirsi in Florida ad allenare i Gators, Jason prende il primo biglietto per Gainesville, sede del college, e segue il suo mentore, perdendo così anche la stagione 1996/97 e presentandosi tirato a lucido per l'annata successiva.
Attenzione, ripeto, attenzione, Giasone is in the building, Giasone is in the building
Più che tirato a lucido, il Jason Williams di quella stagione è proprio un fenomeno. 17.6 punti di media, 6.7 assit, 2.8 rubate, sono medie da prima scelta assoluta, e da prima scelta è anche la prestazione contro Duquesne del 3 dicembre 1997, umiliata con il record di 17 assist nella singola partita.
Vi chiederete voi, ma se ha fatto un'ultima stagione al college da prima scelta, perché non è stato prima scelta assoluta nel suo draft? Perché non esistono solo i lati luminosi di Jason Williams. Non esiste solo il mago del passaggio dietro la schiena, non esiste solo il genio. Esiste anche il Jason Williams pescato tre volte (dicasi tre volte) a fare uso di marijuana, e quindi sospeso dall'università pochi giorni prima del Draft di Vancouver 1998.
Poco male. I Clippers, che getteranno avventatamente la loro scelta su Michael Olowokandi, non erano la squadra adatta al talento di Jason Williams, che scivola fino alla posizione numero sette del draft, dietro a Mike Bibby (personaggio che poi ritornerà in questa storia) e Vince "Vinsanity" Carter, ma davanti a due leggende assolute come Paul Pierce e Dirk Nowitzki (a proposito, complimenti a Milwaukee per averlo liberato così facilmente in direzione Dallas).
Capitolo 2-The Greatest Show on Court.
Come detto, Jason Williams scivola fino alla posizione numero sette di quel draft, ma non più in basso. Quella scelta è infatti di proprietà dei Sacramento Kings, che hanno sì un roster interessante, ma hanno bisogno assoluto di un playmaker, e in una classe che non offriva, e non ha offerto altri grandi spunti in quello specifico ruolo, coach Rick Adelman e il board dei Kings decide di puntare su Jason, nonostante gli enormi dubbi degli analisti riguardo al suo valore dal punto di vista fisico e sull'età, quella di un senior, che però aveva giocato solo venti partite di Division-1 in tutta la sua vita.
Una delle prime cose che si chiede ad un rookie, nel corso della sua prima estate di off-season, è quella di mettere su un po' di massa muscolare, per reggere il confronto con i "grandi", ma sopratutto è fondamentale che il ragazzo si trovi un soprannome, a maggior ragione se, come Jason Williams da Belle, West Virginia, si hanno le capacita di far divertire il pubblico.
Quindi Jason va immediatamente in riunione con la sezione marketing dei viola. Non si sa, ovviamente, cosa i due si siano detti, ma è probabile che abbiano discusso (e bocciato) una serie di proposte, fino al colpo di genio illuminante di uno degli assistenti: "Che ne pensi di White Chocolate?". Jason lo accetta perché riassume bene le sue caratteristiche. White Chocolate perché bianco è il colore della sua pelle. White Chocolate perché il suo stile di gioco è stato definito da molti come sweet, dolce, e sono poche le cose più dolci del cioccolato bianco.
E White Chocolate sia, che la leggenda abbia inizio.
Dopo l'estate dovrebbe ricominciare finalmente la nuova stagione, la prima dopo il secondo (e per niente definitivo) di Michael Jordan. Dovrebbe incominciare ma non incomincia. Non si trova l'accordo tra la NBA, nella persona del commissioner e padre-padrone della lega David Stern, e la NBPA, il sindacato degli atleti. La deadline è fissata per il 19 gennaio del 1999, e fino a poche ore prima la stagione NBA sembra destinata alla prima, storica cancellazione definitiva. Per fortuna degli appassionati, una riunione fiume scongiura lo stop forzato. Il 18 gennaio, un giorno prima della linea di non ritorno, viene firmato il nuovo contratto collettivo, valido per i successivi sei anni. Ovviamente la stagione verrà ristretta. Si stabilisce che la regular season avrà solamente il 61% delle 82 partite. Le 29 franchigie giocheranno quindi 50 partite a testa.
Quei Sacramento Kings hanno, oltre a White Chocolate, un interessante nucleo sul quale costruire il futuro. Il draft ha infatti portato un'altra scelta alla lottery, la quattordicesima, che ha portato in California l'ala piccola ex PAOK Peja Stojakovic. Dalla free agency è arrivato anche Vlade Divac, mastodontico centro dotato di un paio di mani fatate, draftato in NBA dai Lakers che lo avevano ceduto a Charlotte la stagione appena precedente al suo approdo a Sacramento per acquisire i diritti di una giovane guardia, cresciuta al seguito del padre cestista professionista in Italia, che aveva saltato il college, rendendosi eleggibile per il draft appena finita la high school. Pochi giorni dopo la fine della RS 1997/98, che aveva visto i Kings ovviamente fuori dai playoff, una trade con i Washington Wizards (che, lo dico per dovere di cronaca, portò nella capitale Mitch Rimmond e Otis Thorpe) portava in maglia viola Chris Webber, fenomenale ala grande, che era però inizialmente molto restio al trasferimento, perché considerava Sacramento una franchigia perennialy losing.
Ma quella stagione, per quanto breve, offre una Sacramento per niente vittima sacrificale della Grande Lega, bensì come una possibile squadra da playoff, anche grazie alle prestazioni di White Chocolate. Infatti, alla prima partita della stagione, in trasferta contro i San Antonio Spurs che di quella mini-stagione saranno i campioni, nonostante la sconfitta, Jason infila i suoi primi venti punti della carriera. Esordio non indifferente, visto che ruba la scena anche alle due prevedibili superstar, C-Webb appunto e Tim Duncan.
La partita successiva vede per la prima volta Jason Williams presentarsi di fronte al pubblico di casa, contro i Vancouver Grizzlies guidati da Mike Bibby (ve lo dicevo sarebbe ritornato, ma tenetevelo ancora buono questo nome perché ancora non è il suo momento), e tira fuori un'altra grandissima prestazione. Crossover, passaggi illuminanti, tiri da tre con la mano dell'avversario in faccia; White Chocolate Williams non si fa mancare nulla nella sua prima volta alla ARCO Arena, nemmeno la standing ovation finale. Sì, a Sacramento ne sono certi, hanno trovato la point guard del futuro.
Quella stagione incomincia a svilupparsi la leggenda di quei Sacramento Kings, una squadra che gioca una pallacanestro spettacolare prima che efficace, che vive di giocate istintive, pensate da menti superiori, intrappolate in corpi abbastanza diversi l'uno con l'altro. Perché se Divac è un gigantesco uomo balcanico, col volto frastagliato da una barba folta, Jason Williams ha, almeno secondo me, una faccia da bambino di una famiglia medio-alto borghese di New York, attaccata ad un corpo (sempre più tatuato) da normalissimo impiegato di un'azienda informatica. Poco importa che la prima edizione di quei Kings venga eliminata al primo turno dagli Utah Jazz di Stockton to Malone, mantra che ormai i telecronisti NBA ripetevano molte volte ogni partita, che erano sopravvissuti all'ultimo miracolo di San Michael Jordan, ovvero quella meravigliosa palla rubata al Postino, con successiva finta e tiro (perfetto per pulizia ed eleganza) che incontra solo la lunetta, senza sporcarsi inutilmente con il fastidioso rumore del ferro.
Ma la leggenda di questa squadra diverrà tale solamente nell'anno 2000/01, quando arriverà la copertina di Sports Illustrated, con un titolo tanto emblematico quanto prepotente.
The greatest show on court.
Sottotitolo: Basketball the way it oughta be.
Sottotitolo: Basketball the way it oughta be.
Ovvero, il basket nella maniera in cui dovrebbe essere fatto. Questa squadra è effettivamente il sogno di ogni amante della NBA. Esageratamente bella, dolce ed eccessiva come un brownie al cioccolato accompagnato da gelato alla vaniglia. Una squadra che vive di passaggi dietro la schiena, di scambi velocissimi e infiniti, di no-look umilianti per gli avversari, tutto arricchito con crossover e ankle breaker come se piovessero. Non sembra la NBA, sembra di stare al playground. Non importa per quale franchigia si faccia il tifo. Il fascino di questa squadra è innegabile. Come innegabile e straordinaria è l'intesa tra C-Webb e White Chocolate. Vi ricordate la storia di Jason e Randy alla DuPont High school? A Sacramento avviene la stessa cosa, solo che ad un livello molto più alto.
Lo sport è arte. Il problema è che molto spesso gli artisti, ovvero gli sportivi, non sembrano accorgersene. Un artista è colui che riesce ad andare oltre i limiti della società convenzionale. L'artista propone al suo pubblico la sua visione del mondo. E Jason Williams è un artista, anche se lui non ne è minimamente a conoscenza. Perché tutte le opere d'arte che ha sparso sui parquet di tutta America non lo erano nelle sue intenzioni, erano solo un modo per divertirsi, per realizzare il sogno che lo ha accompagnato fin da quella minuscola palestra di Belle, quando ancora era un ragazzino.
Ma se la storia di questa squadra è destinata a continuare, quella del suo numero 55 prenderà, alla fine della stessa stagione 2000/01, un'altra strada. Il motivo è uno solo, perché uno solo è il problema di White Chocolate: è Jason Williams. Perché c'è una tassa da pagare se in ogni azione si cerca di fare la cosa più difficile e spettacolare. Jason perde un'infinità di palloni nel tentativo di realizzare assurdi passaggi ai compagni, che proverranno pure dal suo stesso universo a livello mentale, ma non sanno gestire i suoi deliri. Perché un giocatore spettacolare è sempre divertente da vedere, e il pubblico adorerà sempre vederlo giocare, ma alla prova dei fatti è un giocatore inconsistente. Inoltre Jason ha sempre quel problemino con la Maria (e non parlo della Vergine...) che gli costerà una sospensione di quindici giorni, aggravata da un suo litigio con un malcapitato tifoso degli Warriors di origine asiatica, apostrofato con epiteti razzisti e non proprio gay-friendly.
Vlade Divac diventerà uno dei sei giocatori nella storia NBA ad aver collezionato 13000 punti, 9000 rimbalzi, 3500 assist e 1500 tiri bloccati, e verrà ricordato come uno dei migliori centri passatori della storia (anche se a mio modesto parere nessuno batte il principe del Baltico Arvydas Sabonis) . Chris Webber è considerato dagli esperti l'undicesima migliore ala grande di sempre, e secondo Bill Simmons è il settantottesimo miglior giocatore della storia della Lega. Hidayet Turkoglu (draftato dai Kings in quello stesso 2000) diventò uno dei migliori giocatori a cui affidare l'ultimo possesso, dimostrando attributi di ferro e sangue proveniente dalla Groenlandia. Tutti loro, insieme a Peja Stojakovic e Mike Bibby, che arriverà dai Grizzlies (spostatisi intanto a Memphis) proprio in una trade con Williams, formeranno una grandissima squadra che solo i Lakers del duo Shaq-Kobe riusciranno a fermare nella loro corsa alle Finals.
Jason Williams no, come detto andrà a Memphis. Ma prima di andarsene da Sacramento, ha preferito imprimere per sempre la sua traccia nella storia dello sport.
Capitolo 3- Le porte del Paradiso
Il pubblico della Oakland Arena ride. Ride perché effettivamente è l'unica reazione possibile a quello che hanno appena visto. Che poi non so quanti abbiano capito esattamente che cosa hanno visto. Non lo hanno capito i tifosi, non lo hanno capito i giocatori avversari, non lo hanno capito nemmeno Federico Buffa e Flavio Tranquillo, che sono lì a raccontare la partita per quegli appassionati italiani abituati a vivere in maniera vampiresca, dormendo di giorno, quando la NBA spegna le sue luci e i suoi lustrini. Ma sopratutto non lo ha capito Raef LaFrentz, che scioccato per essersi ritrovato tra le mani il pallone sbatte addosso ai difensori, guadagnando però un fallo.
Ride anche Jason Williams, ma per un motivo differente. Lui sa esattamente che cosa è successo, e lo sa perché è lui la causa dell'accaduto. Ride perché è consapevole che quello che ha fatto non lo ha mai fatto nessuno ad un livello così alto e sa che quel gesto atletico è il suo lasciapassare per la storia del gioco.
Per spiegare al meglio quei centesimi di secondo che hanno fatto pensare anche allla buonanima di Pete Maravich, che sono sicuro si è gustato quella partita dall'alto, di aver trovato uno che viveva sulla sua stessa modulazione di frequenza.
Come detto ci troviamo alla Oakland Arena di Oakland (e dove sennò?), casa dei Golden State Warriors, che ancora non immaginavano nemmeno lontanamente l'arrivo dell'epoca dello Splash, anzi degli Splash. La data è quella dell'11 febbraio 2000, giorno nel quale è prevista l'apertura del NBA All-Star Weekend di quell'anno, che prevede il così detto Rookie Challenge, una sfida tra i migliori rookies (i giocatori al primo anno) e i migliori sophomores (quelli del secondo anno) della lega. Il giorno dopo a quella partita, Vince Carter farà partire la vinsanity grazie ad una serie di schiacciate mostruose, giusto per far capire a tutti chi è indiscutibilmente il più grande schiacciatore di sempre, ma questa è un'altra storia.
Si, perché per celebrare la grandezza del fu Air Canada ci vorrebbe un altro pezzo lungo almeno quanto questo, se non di più. Torniamo a White Chocolate, e alla sua magia.
Ad un certo punto Adrian Griffin, rookie dei Celtics, tenta e sbaglia un tiro da tre, rimbalzo offensivo per i sophomores, palla a White Chocolate, perché in questo momento Jason Williams ha lasciato il suo corpo in mano al suo alter ego, quello artista pazzo e visionario, che conduce il contropiede e si affaccia all'altezza della lunetta del tiro libero, dove trova l'opposizione di Lamar Odom, all'epoca in maglia Clippers, ma che darà il meglio nel reality show meglio noto come Los Angeles Lakers. A quel punto Jason sa di essersi infilato in una sorta di vicolo cieco, e visto che la valenza sportiva del Rookie Challenge è pari a 0, decide di provare qualcosa di nuovo.
Senza mai minimamente fermare la sua corsa, prende la palla con la mano sinistra e se la porta dietro la schiena. Sembra il suo classico (per lui, ovviamente, non per gli altri) movimento. Adesso la passerà al compagno che accorre alla sua destra, sembra questo il destino di quel pallone. Ma non finirà esattamente così. Infatti White Chocolate muove in direzione contraria il suo braccio destro, a novanta gradi, e impatta il pallone con il gomito. La palla a spicchi finisce esattamente nelle mani dell'accorrente LaFrentz, che come detto non comprende che cosa sia veramente accaduto e si fracassa contro la difesa avversaria.
Si sono aperte le porte del Paradiso. Ecco che cosa è successo. Gli dei del basket hanno ricevuto dal loro figlio prediletto la ricompensa tanto sperata. Un passaggio dolce come l'ambrosia, o come il cioccolato bianco se preferite, che ha allietato i cuori di chiunque ami veramente il Gioco. E allora ridiamo. Ridiamo e non parliamo, perché non esiste una parola che non sia "opera d'arte" per descrivere una cosa del genere.
The Elbow pass è l'opera manifesto di un'intera scuola cestistica, che ha avuto sicuramente elementi più famosi e rappresentativi. Steve Nash, Jason Kidd, Jason Williams appunto e adesso il loro erede, Ricky Rubio. Tutti atleti mediocri, ma passatori fenomenali. Tutta gente che ha voluto divertirsi senza troppi pensieri per la testa, non per fama, o per soldi, o per essere riconosciuti come grandi artisti. Tutte persone che hanno una concezione molto diversa dalla nostra di normalità. Sono rappresentanti di un'altra cultura, di un altro mondo che non appartiene a quelli come me. Ed è per questo motivo che sono così fottutamente affascinato da questo ragazzo con la faccia da bambino e il corpo tatuato da piccolo rapper del ghetto.
D'altronde lo stesso Jason, in un'intervista prepartita, prima di sparare una tripla nel riscaldamento, aveva urlato alla telecamera. "Voglio solo divertirmi, fosse per me giocherei anche sulla sabbia!". Questo è White Chocolate, una persona semplice nel senso che necessita di poco per essere felice. Gli basta una palestra con un canestro appeso ed un paio di altre persone da umiliare con i suoi dribbling, o da aiutare con i suoi passaggi. Solo che col tempo Jason Williams si è accorto che questo non gli bastava, e anzi, se avesse continuato così, avrebbe avuto più rimpianti che altro. Ma per capirlo, e per rialzarsi verso le luci della ribalta, è necessario prima scivolare in basso, come i film americani hanno sempre tentato di dimostrare.
Capitolo 4- Cause something inside has changed
Jason arriva nella città che ha dato i natali artistici a gente del calibro di B.B. King, Elvis Presley e Aretha Franklin nel 2001, scambiato con il playmaker Mike Bibby, lo stesso che era stato scelto prima di lui in quel draft 1998 e contro il quale aveva fatto il suo straordinario esordio casalingo in maglia Kings.
Memphis è una città nuova della NBA, che come detto è stata scelta da Michael Heisley, proprietario dei Grizzlies, per spostare la squadra da Vancouver, dove era passata alla storia come una delle peggiori squadre della lega, mai qualificatasi ai playoff con una percentuale di vittorie nel periodo 1995-2001 (quello che va dalla fondazione allo spostamento nel Tennessee) del 22%.
I nuovi Grizzlies vengono collocati nella Western Conference, come la loro precedente versione canadese, diventando così la squadra più ad est della Conference. Infatti un'immaginaria linea dritta, che taglia in due metà uguali gli USA, vedrebbe Memphis distaccata dalle altre città dell'Ovest, e molto più vicina a quelle dell'Est.
Per rialzare la squadra, reduce da annate disastrose, come abbiamo visto, viene nominato GM il leggendario Jerry West (che avrete sicuramente visto almeno una volta, anche se stilizzato in bianco su uno sfondo rosso e blu...), che a sua volta nomina come coach l'altrettanto storico Hubie Brown, ritirandolo fuori dal pensionamento anticipato in cui si era infilato. La squadra cresce fino ad arrivare al traguardo delle 28 vittorie (record storico per la franchigia), ma sopratutto riesce, nel controverso (per i risultati che darà il campo negli anni successivi) draft del 2001, ad assicurarsi i diritti della terza scelta assoluta, di proprietà degli Atlanta Hawks, che scelgono un giovane centro spagnolo, dotato di uno spiccato talento naturale per giocare il pick and roll e che ha una conoscenza impressionante il gioco. Il suo nome è Pau Gasol, e sarà la pietra angolare su cui i Grizzlies costruiranno la propria squadra, salvo poi cederlo nel 2008 ai Lakers (con cui vincerà la bellezza di due anelli), in cambio di vari giocatori tra cui il fratello più piccolo, ma non per questo meno scarso, Marc, che sostituirà il fratellone nei cuori dei tifosi del Tennessee.
Ma cosa porta esattamente Jason Williams all'interno di questa squadra? Porta le sue innegabili qualità, ma anche i suoi spiccati difetti. Il problema veramente grave è che per coach Brown e suo figlio-assistente Brendan le qualità di White Chocolate non sono esattamente necessarie alla costruzione di una grande squadra, e le sue problematiche porteranno in breve tempo allo scontro, anche in diretta televisiva, con l'anziano coach.
Il problema di Jason è un problema tattico, non legato semplicemente ad un cattivo rapporto con Hubie Brown. Anche il suo successore, Mike Fratello, avrà duri contrasti con White Chocolate. Il problema è che un giocatore che gioca come fa Williams non è sostenibile per un lungo periodo della partita, perché è come giocare alla roulette russa, potresti vedere il canestro più bello della storia, ma potresti anche trovarti contro ad un tremendo contropiede avversario tre-contro-zero. Per questo motivo Jason Williams finisce a lungo in panchina, e non giocando non si diverte, e non divertendosi diventa un uomo irascibile. Sembra quasi un bambino di tre anni a cui hanno tolto il giocattolo preferito ed inizia a piangere disperatamente.
White Chocolate per Marc Gasol in quello che sarà l'ultimo Jason Williams della sua carriera, contro la squadra che lo ha lanciato
White Chocolate non è più l'idolo dei tifosi, non è più il giocatore che accende le folle, o perlomeno non lo è sempre. Il lato della medaglia che mostra più volte è quella del bambino viziato, quello a cui è stata tolta l'unica vera fonte di divertimento. Sembra perso per sempre. Sembra chiaro come verrà ricordato negli anni a venire quando i Boston Celtics (che poi successivamente avranno a che fare con i playmaker folli) degli appena formati big three (al già presente Paul Pierce si sono aggiunti Ray Allen da Seattle e Kevin Garnett) tentano di tradarlo. Il suo ruolo sarebbe quello del backup, il playmaker di riserva capace di garantire quello spettacolo che serve alle partite, in pratica, vogliono che Jason Williams sia il fenomeno da baraccone di questa squadra.
Qui però Jason Williams da Belle, West Virginia, capisce che non è quello ciò per cui vuole essere ricordato. Capisce che va bene divertirsi, ma lui è un giocatore vero, non un Harlem Globetrotter qualunque. Pian piano incomincia a cambiare il suo stile di gioco, diventando più razionale e limitando le sue giocate solo ai momenti in cui era strettamente necessario, fino a che non arriva la sliding door della sua carriera.
Aver passato l'ultimo anno del College in Florida lo ha fatto innamorare di quelle zone (mica scemo Jason) e appena raccolti i primi soldini del contratto NBA decide di comprarsi una villa dove trasferirsi in off-season con la sua famiglia, che è composta dalla moglie, e compagna d'università, Denika Kisty, che faceva parte della squadra d'atletica della Florida University, nel lancio del giovellotto, e successivamente dai tre figli, nati però in anni abbastanza recenti.
La zona in cui Jason compra casa non è proprio che possono permettersi tutti, infatti il vicino di casa che si ritrova White Chocolate è nientemeno che un suo collega, e che collega. Parliamo infatti di Shaquille O'Neal, non solo uno dei più grandi centri della storia, ma indubbiamente il giocatore più simpatico che sia mai esistito. Infatti i due fanno amicizia molto presto e Shaq cercherà di portare Jason nella sua squadra. Non ci riuscì ai tempi dei Lakers, ma ci riesce finalmente quando si trasferisce, per la sua ultima grande stagione, a Miami, sempre in Florida.
Il 2 agosto del 2005, da un certo punto di vista, si è fatta la storia. Viene infatti annunciata quella che è la più grande trade mai vista della NBA. Cinque franchigie incluse: Miami Heat, Memphis Grizzlies, New Orleans Hornets, Utah Jazz e Boston Celtics. Tredici giocatori trasferiti: i più importanti, entrambi in direzione Miami, sono l'ex All-Star Antoine Walker e il protagonista della nostra storia, che va a trovarsi finalmente in una squadra che possa lottare per il titolo. Gli Heat infatti hanno sotto contratto Shaquille O'Neal, colui che ha voluto l'amico Williams nella sua stessa squadra, e due vecchie volpi di altissimo livello come il già citato Walker e The Glove Gary Payton, ma sopratutto They have no fear, because Flash is here. Inoltre a gestire questo gruppo di campioni c'è quel Pat Riley, in una delle sue ultime avventure da coach, prima di spostarsi sulla scrivania del GM, lasciando l'incombenza del campo nelle mani del suo giovane scudiero Erick Spoelstra. Pat Riley che teoricamente non avrebbe dovuto essere in panchina, perché originariamente il coach era Stan Van Gundy, dimessosi dopo poche gare per attriti con lo stesso ex-coach dei Knicks, che si prese il posto in panchina.
Jason è il playmaker titolare della squadra, e il suo stile di gioco rinnovato gli permette di avere un grande minutaggio e allo stesso tempo un rendimento positivo. Le sue medie non sono straordinarie (non lo sono mai state in tutta la sua carriera, a dir la verità), ma dimostra affidabilità, con medie interessanti (31 MPG; 12,3 PPG; 4,9 APG), non risultando il migliore della squadra in nessuna statistica, ma assestandosi come terzo giocatore della squadra dopo Wade e The Diesel. Ma non rinuncia del tutto ad alcune grandi giocate, in fin dei conti è pur sempre White Chocolate, e la NBA è pur sempre una lega che mette alla base lo spettacolo e le grandi giocate.
Nei playoff Jason non salta nemmeno una gara (in RS aveva invece subito un piccolo infortunio che lo aveva limitato alle 60 gare), e tocca il punto più alto nella gara sei della serie con i Detroit Pistons, valida per le Finali della Eastern Conference. Jason realizza ventuno punti, ma quello che stupisce non è il numero, ma la qualità dei suoi punti. Apre la gara (letteralmente, visto che ci si trovava sullo 0-0) con un palleggio arresto e tiro che per modo in cui è arrivato ha molto poco di logico, e quindi è perfettamente negli standard di Jason Williams. Poi penetrazioni a canestro con il suo tipico movimento per il layup, con il braccio portato in alto, come se stesse portando la fiamma Olimpica, e anche una tripla à-la-Steph Curry che fa molto 2016. Ma la cosa bella è che quei ventuno punti arrivano con 10 tiri (senza free throws), i primi della sua partita che entrano tutti, e se non fosse per un altro layup, stavolta sbagliato, a risultato ormai acquisito (più quindici Miami con tre minuti da giocare) avrebbe concluso la gara decisiva della finale di Conference con un andamento perfetto, senza tiri sbagliati, una risposta chiara a chi lo vedeva solo come un giocoliere del parquet.
Questo è il motivo per cui Jason mi affascina molto di più di altri play che hanno fatto della genialità, a volte fumosa, il loro cavallo di battaglia. White Chocolate è stato un idealista, un uomo che aveva pensato ad un modo diverso e utopistico di fare pallacanestro, ma che quando si è reso conto dell'impossibilità di compiersi come atleta in quella maniera, ha preferito scendere a compromessi col suo talento, e questo, sarebbe il caso di spiegarlo a molte persone nel nostro paese, non è per forza una cosa negativa, ma può portare miglioramenti, può portare al titolo NBA ad esempio, e a ritirare l'anello nella Premiere Week dell'annata successiva. Alla fine i Miami Heat sono campioni NBA, battendo i Dallas Mavericks dopo una rimonta incredibile dal 2-0 per i texani fino al 4-2, e Jason realizza 12 punti di media nella finale.
Ci sarebbero altre cose da dire sulla carriera di Jason Williams, che verrà tormentato dagli infortuni negli anni successivi, annunciando un primo ritiro a fine 2008, ma ritornando l'anno successivo, per due stagioni con Orlando Magic e ritornando per la sua (stavolta definitiva) ultima stagione con i Memphis Grizzlies.
Con il suo ritiro, se ne è andato uno dei simboli della Lega. Non è mai stato tra i migliori e le sue medie sono molto lontane dall'essere considerabile come stellari. Ma è stato il simbolo di un modo di fare playmaking che ha avuto rappresentanti sicuramente più famosi e celebrati, ma mai nessuno che abbia raggiunto il livello di genialità e spettacolarità del ragazzo della West Virginia, quello che nella palestra della DuPont High School tirava fino alla mezzanotte inoltrata, con l'unico sogno di raggiungere l'apice della NBA e di divertirsi. Jason Williams è stato un talento unico, forse irripetibile (ma sono scettico quando si dice che un talento con precise caratteristiche non si ripeterà mai), sicuramente divertente.
White Chocolate ha parlato al cuore degli appassionati, e per questo è diventato un giocatore di culto, le cui giocate sono ricordate anche ora, ad anni dal Rookie Challenge del 2000 ad Oakland. E tra questi appassionati ci sono anche io. Grazie Jason, ci hai fatto divertire moltissimo.