Prima di cominciare a leggere questo articolo, è il caso che io vi dica una cosa: a me i Coldplay piacciono. Non perché siano dei geni della musica, o per i loro testi rivoluzionari; nulla di tutto ciò, anche perché mistificherei la realtà delle cose. I Coldplay mi piacciono perché sono come una medicina, regalano sempre una felice emozione, qualcosa di positivo, e questa è una cosa, al di fuori di ogni valutazione stilistica o tecnica, trovo quantomeno affascinante in una canzone.
Sapendo di questo mio interesse per la band londinese, un mio caro amico (che ringrazio calorosamente) ha approfittato dell'occasione del mio compleanno per regalarmi un cofanetto con tutti e quattro i primi dischi dei Coldplay, che mancavano dalla mia collezione personale, e in questi giorni ho riascoltato quella che è stata l'opera dei Colplay negli anni '00 e per capire, anche confrontandola con i successivi tre album, come si sia sviluppato il sound degli uomini di Chris Martin e a che punto siano nella loro parabola artistica.
D'altronde è lo stesso frontman della band che ai microfoni di Zane Lowe della BBC, mentre annunciava l'uscita di A Head full of dreams, ha spiegato come questo settimo album sia la conclusione di un percorso, il completamento di un'opera.
Una cosa che va indubbiamente riconosciuta ai 4 di Londra è la loro capacità di rinnovarsi, o meglio, l'aver capito, dopo le tante (o meglio troppe) critiche ricevute dopo l'uscita di X&Y, che continuare a insistere sempre sullo stesso filone musicale e che offrire su un piatto d'argento la possibilità ai detrattori di dire che "Coldplay sucks!!" non fosse proprio l'idea del secolo.
Sarebbe dovuto essere l'album della consacrazione all'interno dello stardom musicale, si è rivelato invece un album godibile se si apprezzano i Coldplay, molto meno se non si è proprio dei fan accaniti. Chris e soci hanno rapidamente capito di trovarsi di fronte non al loro album più discusso (qualche anno dopo le polemiche aumenteranno molto anche tra i fans, ma rispettiamo un certo ordine cronologico) ma a quello più ripetitivo, e fin dalla promozione del successivo Viva la Vida, hanno cercato di mettere il più velocemente possibile in un angolo buio di un garage i mesi passati, per dimostrare agli altri (o a loro stessi) di essere molto di più di un album incompleto, ritardatario e contrastante nelle sue varie anime.
Dicevamo di Viva la vida, o meglio di Viva la vida or Death and all his friends, vale a dire l'album che ha più cambiato, che li ha avvicinati alle sfere del rock, allontanandoli dalla tradizione più pura. Dal mio modesto parere di appassionato, il migliore album dei Coldplay. Se Parachutes presentava al mondo la nuova band inglese trendy, e se A Rush of blood to the head valeva come conferma delle sensazioni precedenti, il quarto disco di Martin & Co. è stato il risorgere della Fenice dalle ceneri della trilogia precedente che si era conclusa non dico in maniera sanguinosa, perché i suoi risultati discografici erano stato positivi, ma sicuramente non in maniera positiva.
Il mio giudizio su questo disco, lo devo ammettere, è clamorosamente influenzato dalla title track, che rientra nella shortlist delle mie cinque canzoni preferite di sempre.
È per gli archi, che scandiscono il ritmo della canzone; è per i messaggi (più o meno) subliminali che lancia; è una canzone con argomento (in parte) religioso scritta da una persona che religiosa convinta non è, e quindi rappresenta un possibile ossimoro. Eppure è tutto così perfettamente semplice, pulito, elegante ma allo stesso tempo travolgente nel suo entusiasmo, quello stesso entusiasmo che i Coldplay cercheranno in tutti gli album e i singoli successivi di ricreare, con risultati più (Paradise) o meno (Adventure of a Lifetime) riusciti. Il pezzo Viva la Vida è il punto più alto dei Coldplay, ma forse è anche la causa delle principali critiche che verranno rivolte alla band negli anni successivi.
Critiche che arrivano feroci fin dall'album successivo, che come detto è probabilmente il più discusso di tutta la discografia delle involontarie guest stars della prima puntata di 2 Broke Girls. Mylo Xyloto ha distrutto nel vero senso della parola la comfort-zone che si era creata con i fan, fuoriuscendo da quello che è il gusto tipico degli appassionati e riscrivendo le regole della relazione fandom-artista.
Tutte le tracce dell'album sembrano voler ricreare l'effetto Viva la vida, quantomeno dal punto di vista più puramente musicale. L'unica che a mio parere si avvicina al capolavoro precedente (ma pure qui sono di parte perché è la canzone che mi ha avvicinato ai Coldplay) è Paradise, non a caso successo commerciale e radiofonico straordinario.
Quello che bisogna capire è se per i Coldplay il gioco è valso (e sta valendo) la candela. Questo rischia di essere il tormentone ogni volta che seduti in macchina sentiremo una loro canzone e penseremo se è servito veramente andare alla ricerca continua della canzone "tutto è perfetto in questo mondo meraviglioso", riuscita solo due volte (l'altra è Hymn for the Weekend) in tre album. Non sarebbe forse meglio concentrarsi su altri generi di musica, e perché no su quel synth pop morbido ed elegante che tanto ha funzionato con Magic?
Da fan dei Coldplay, posso dire che la band londinese ha fatto grande musica, e che verrà ricordata per questo, ma che potrebbe essere un grande rimpianto della musica moderna, perché una volta trovato un campo su cui spingere si sono concentrati solo su quel campo senza cercare di innovarsi con continuità, come avevano fatto, con successo, con Viva la Vida.